La porta della navetta a Fiumicino si è aperta. Una lunga, lunga attesa e finalmente escono: sono quarantaquattro persone arrivate in Italia da un campo profughi in Libano grazie al corridoio umanitario organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alla Comunità Valdese con l’accordo del Ministero degli Esteri. Una famiglia con due bambini i primi ad uscire, incontrano le volontarie dell’organizzazione che li accoglie con un mazzetto di fiori, un grande sorriso, un caloroso ciao di benvenuto. Ciao, ciao, le mani che salutano, i sorrisi sotto le mascherine si vedono dagli occhi. Tanti bambini, chi in braccio, chi per mano, sicuramente il loro primo volo. Chi con il velo, chi senza, una signora commossa saluta e manda baci alla telecamera della volontaria che immortala questo momento, un’altra signora saluta, stringe la mano di ogni volontaria e ringrazia personalmente. Quale sarà la famiglia che aspettiamo? Hanno tutti sulla giacca il cartellino con su scritto “corridoio umanitario”, tutti stanchi dal lungo viaggio, tutti sollevati, tutti in attesa di un tempo migliore di quello lasciato. Chissà quali pensieri, trovarsi tra gente sconosciuta, trovarsi in un posto più sicuro, l’Europa, l’Italia, il ricco e sicuro occidente, chissà quante speranze. Le famiglie hanno trovato accoglienza in varie parti d’Italia, chi in Sicilia, chi in Piemonte, chi in Veneto. Chi nelle Marche, a Macerata, con noi e con chi vuole stare loro vicino.
L’uscita dall’aeroporto è caotica, per le norme Covid si può attendere solo all’esterno, tutti i passeggeri escono insieme, come fare a riconoscersi? Si ricorre alle foto sbirciate sui social, pensiamo di averli riconosciuti, poi una mediatrice di Sant’Egidio ci conferma: è questa la famiglia destinata a Macerata. Loro sembrano non essere sicuri o forse è solo la confusione generale, lo spaesamento dovuto alla stanchezza per il viaggio e alle molte ore passate in aeroporto per le procedure di ingresso, ma poi riusciamo a capirci, a dirci i nomi e scattare una foto tutti insieme. Poco tempo, non c’è spazio per sostare, gli altri viaggiatori chiedono di poter passare, è ora di andare, e mentre ci si avvia si mandano saluti veloci ai compagni di viaggio e chissà forse di mesi o anni vissuti a stretto contatto nel campo profughi. Quale sarà la loro destinazione? Si rincontreranno? Qualcuno porta le mani all’orecchio a forma di cornetta, una promessa che dà sicurezza in questo momento in cui tutto è incerto.
Contrariamente a quanto annunciato i bagagli non sono minimi, la cosa ci rasserena e ci fa quasi sorridere, noi occidentali legati al mito dell’essenzialità in viaggio, questo però non è un viaggio di piacere ma una vita, quattro vite, che si spostano in cerca di normalità. Mentre cerchiamo l’incastro giusto per valigie e zainetti ci chiediamo quali pochi oggetti ci porteremmo dietro se fossimo costretti a lasciare tutto e ci troviamo presto d’accordo: impossibile dirlo se non ti trovi nella situazione di dover abbandonare la tua casa e il tuo mondo. Poi finalmente si parte. Durante il viaggio in inizia la conoscenza reciproca non senza difficoltà, i genitori infatti parlano solo arabo e si comunica come possibile, con l’aiuto della tecnologia, dei gesti e della bimba più grande che conosce qualche parola di italiano e un po’ di francese ed è desiderosa di capire e fare da interprete: la stanchezza non riesce ad oscurare la sua intelligenza, energia e voglia di vivere. Il traffico romano, il buio, la pioggia, qualche piccolo imprevisto e sosta tecnica rendono il viaggio lungo e faticoso, cerchiamo continuamente di far capire quanto tempo manca per arrivare a destinazione, mostriamo loro la cartina dell’Italia, con l’itinerario del navigatore che indica anche la durata del viaggio e l’ora di arrivo prevista. Percepiamo la loro incertezza e confusione, ci chiedono se siamo di Sant’Egidio, fanno riferimento ad una famiglia che li accoglierà e a un centro dove fare la quarantena. Proviamo a spiegare che non c’è una famiglia ma un gruppo di persone per accoglierle, che avranno una casa solo per loro e anche la quarantena la passeranno lì. Tentiamo di capire qualcosa della loro storia, quanti anni hanno passato in Libano, crediamo di capire solo che non sono andati via tutti insieme ma hanno passato alcuni anni separati.
A Macerata ad accoglierli sotto casa altre sette persone del gruppo che ci hanno tenuto a dare loro subito il benvenuto anche se solo di sfuggita e nonostante il freddo e la pioggia. All’arrivo erano stanchissimi, diciamo pure esausti, per il lungo viaggio e le tante emozioni ma quando sono entrati in casa si sono risvegliati per la meraviglia dell’ambiente accogliente tutto per loro che hanno trovato. Le bambine all’improvviso erano vispe e sorridenti, la più grande uscita sul balcone dell’appartamento al sesto piano ha voluto sapere se in questa città nevica, la piccola non poteva credere ai suoi occhi quando ha visto la cameretta con i letti a castello e una piccola scrivania. Abbiamo fatto una telefonata con la mediatrice culturale che ci aiuterà in questa prima fase, per comunicare qualche indicazione pratica e tante emozioni. Ma la parola grazie è stata già detta tante volte in italiano.