L’uccisione brutale e immotivata di Alika Ogorchukwu ci addolora profondamente, ci ha lasciati ora scossi, ora attoniti, ora indignati, ora angosciati. Alcuni di noi conoscevano di persona Alika e le loro parole ci hanno tratteggiato, dietro un nome e un volto, una persona con la sua unicità e irripetibilitá, una persona che ora abbiamo perso per sempre. Leggiamo sui quotidiani, oltre alla descrizione sempre più dettagliata del fatto di cronaca, le interviste e i commenti che ne sono seguiti. Scrive il giornalista Varagona, intervistando Roberto Mancini, che “la frana che in questi anni ha travolto l’educazione civile, la coscienza collettiva e la democrazia si manifesta in questo territorio non solo per i fatti di sangue contro le persone migranti ma anche per la reazione di indifferenza, di irresponsabilità o persino di approvazione che troviamo in alcuni strati della popolazione”. Aggiungiamo a questa considerazione la diffusa desensibilizzazione e l’impoverimento dello spazio umano, personale e comunitario, che rende tutti spettatori senza avvertire la propria responsabilità in ciò che accade.
Lo dimostrano i video che circolano in rete che amplificano il senso di impotenza, la paura, ma pure l’estraneitá come se ciò che è successo non riguardasse ciascuno di noi.
Lo sperimentiamo spesso, con altre notizie strazianti, non da ultima la morte drammatica della piccola Diana: nessuno è intervenuto, questa volta per prevenire e quindi impedire un epilogo già scritto, nessuno ha visto o ha parlato prima, salvo poi cercare immagini e parole per dissezionare insieme ai fatti le persone, impegnati a vivere gli eventi esclusivamente da spettatori.
L’ “I care”, il “Mi interessa, mi sta a cuore” di don Milani non è uno slogan esclusivo delle aule scolastiche, ma un imperativo categorico per nutrire lo spazio di umanità che abbiamo il compito di abitare e dobbiamo avere a cuore quotidianamente. Non si tratta di “Restare umani” ma di divenirlo ogni giorno, un dovere da assumere come singoli e come comunità.
Come associazione di famiglie e singole persone aperte all’accoglienza sperimentiamo spesso i limiti di una rete sociale a maglie troppo larghe, che non sostiene non solo nell’emergenza ma soprattutto non si amplia e si fortifica nell’ordinario. Ci sono fili fatti di servizi alla persona, di luoghi di ascolto, di relazioni formali e informali che sono costantemente da riannodare. I servizi dedicati alle persone, alle famiglie, ai minori, in particolare quelli più bisognosi, sono perennemente in affanno, depauperati di risorse economiche, spesso animati da persone competenti e di buona volontà, ma costrette a rinunciare a percorsi innovativi e al potenziamento delle positive realtà che già esistono, in nome di scelte politiche ispirate ad un presunto efficientismo. La prevenzione è costosa, ma si tratta di investire con un occhio attento non solo al PIL ma al BIL, a quel benessere interno lordo che è la vera ricchezza di un Paese, di un territorio.
La morte di Alika ci fa scoprire ancora una volta che quanto siamo poveri di una rappresentazione ragionevole della realtà, appiattiti da una logica causa effetto che si nutre dell’immediatezza delle immagini e dei luoghi comuni. Buono-cattivo, bianco-nero, malato-sano, le dicotomie a cui affidiamo i nostri pensieri sono facili scorciatoie che ci rendono prede di slogan. Più difficile è aprire spazi di pensabilitá per guardare alla complessità della vita e sentirci coinvolti, responsabili nello sguardo, nelle parole, nelle azioni. Riflettere insieme, confrontarsi, fare memoria. Comprendere che anche i nostri sguardi, le nostre parole, le nostre azioni possono uccidere, se non materialmente, nella dignità, l’altro.
E nel contempo assumersi la responsabilità di fare di questo spazio di umanità, da abitare sia personalmente che collettivamente, un’opera quotidiana di bonifica dei luoghi comuni e di esercizio di incontro autentico con l’alteritá dell’altro, che può essere scomoda, importuna, incomprensibile, che non è mai come ce la rappresentiamo e proprio per questo è ricchezza da rispettare, da accogliere e da cui imparare.
Perché l’altro sono io.
Il presidente
Valeria Rossi